Un’insegna pubblicitaria di notte, con la sua alterna
vicenda di accensioni e di spegnimenti, dà alla realtà circostante contorni
innaturali. I bambini che si affacciano alla finestra dell’abbaino per
contemplare il cielo si vedono per alcuni momenti sopraffatti dalla luce al
neon che appiattisce la bellezza del cielo notturno. Ma tra la luce tagliente
dell’insegna e la luce delicata e gentile della luna e delle stelle c’è uno
spazio di breve durata che si concede ai sogni ora puerili ora favolosi dei
genitori e dei ragazzi.
Sarà un colpo bene assestato di un sasso lanciato con la
fionda a spegnere l’insegna luminosa,
per ristabilire il rapporto con l’ambiente circostante, per allontanare la luce
offensiva del neon. Ma ecco che s’insinua la civiltà dei consumi, con la smania
del guadagno che contamina Marcovaldo, facendo di lui un collaboratore della
spietata macchina pubblicitaria: una
nuova insegna luminosa, ancora più sfacciata e più violenta della
concorrente, installata sul tetto della
sua casa. E il margine di tempo per i sogni si riduce a pochissimi istanti.
L’intimità è sempre più limitata e denudata dallo squallore prepotente della
vita urbana e la zona dei sogni è sempre più occupata dall’artificio e dalla
menzogna.
Luna e gnac
La notte durava venti secondi, e venti secondi il Gnac. Per
venti secondi si vedeva il cielo azzurro variegato di nuvole nere, la falce
della luna crescente dorata, sottolineata da un impalpabile alone, e poi stelle
che più si guardavano più infittivano la loro pungente piccolezza, fino allo
spolverio della Via Lattea, tutto questo visto in fretta in fretta, ogni
particolare su cui ci si fermava era qualcosa dell’insieme che si perdeva,
perché i venti secondi finivano subito e cominciava il Gnac.
Il Gnac era una parte
della scritta pubblicitaria Spaak-Cognac
sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando
era accesa non si vedeva nient’altro. La luna improvvisamente sbiadiva, il cielo
diventava uniformemente nero e piatto, le stelle perdevano il brillio, e i gatti e le gatte che da dieci secondi
lanciavano gnaulii d’amore muovendosi languidi uno incontro all’altro lungo le
grondaie e le cimase, ora, col Gnac, s’acquattavano sulle tegolea pelo ritto,
nella fosforescente luce al neon.
Affacciata alla
mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte
correnti di pensieri. C’era la notte e
Isolina coi suoi diciott’anni si sentiva trasportata per il chiar di luna, il
cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani
inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi d’una serenata; c’era il Gnac e quella radio pareva pigliare
un altro ritmo, un ritmo jazz, e Isolina si stirava nella vestina stretta e
pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola.
Daniele e Michelino,
otto e sei anni, sgranavano gli occhi nella notte e si lasciavano invadere da
una calda e soffice paura d’esser circondati da foreste piene di briganti; poi,
il Gnac! e scattavano coi pollici dritti e gli indici tesi, l’uno contro
l’altro: - Alto le mani! Sono Superman! – Domitilla, la madre, a ogni spegnersi
della notte pensava: «Ora questi ragazzi bisogna ritirarli, quest’aria può far
male. E Teresina affacciata a quest’ora è una cosa che non va!» Ma poi tutto
era di nuovo luminoso, elettrico, fuori come dentro, e Domitilla si sentiva in
visita in una casa di riguardo.

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